“Io sono il sarto” è il leitmotiv della mostra che Bergamo, in occasione di uno straordinario ritorno, dedica al pittore e ritrattista Giovan Battista Moroni, nato ad Albino nel 1522. Mostra che si snoda in tre distinte sedi: l’Accademia Carrara, il Museo diocesano Adriano Bernareggi e la Fondazione Museo di Palazzo Moroni.
Il quadro de “Il sarto”, in prestito dalla National Gallery di Londra, si trova ora all’Accademia Carrara nella sala 17, dedicata alla produzione ritrattistica di Moroni, affiancato da altri uomini e donne del ‘500, raffigurati a mezzo busto o a figura intera, appartenenti a una borghesia agiata e culturalmente aggiornata. L’opera ha subito un ingrandimento delle sue dimensioni originali probabilmente a seguito di un intervento documentato da George Morrill nel 1863. Si è deciso, però, di non intervenire e, ancor oggi, il quadro mantiene inalterata la modifica.
Il sarto, grazie all’allestimento curato da Mauro Piantelli, all’atmosfera ricercata creata dalla luce soffusa e dalla cromia scura delle pareti, occupa uno spazio degno di un vero capolavoro. Il giovane uomo è colto dall’artista mentre tiene nella mano destra un paio di forbici e nell’altra una stoffa nera, su cui sono tracciati piccoli segni bianchi con un gessetto. Se è difficile stabilire se sia un sarto o, più probabilmente, un venditore di pannina, certo è che lo sguardo deciso e inteso e il portamento fiero ed elegante di questo borghese non possono non colpire il visitatore, infondendo un sentimento di ossequioso rispetto. Nel quadro il sarto si erge a unico vero protagonista in una scena totalmente priva di elementi decorativi o architettonici, in cui viene severamente vietato e abolito il futile, il frivolo e tutto ciò che ha riferimenti pagani, a vantaggio di una raffigurazione scevra e sobria, più incline al pensiero controriformistico.
L’artista realizza questo capolavoro proprio nella fase della sua maturità tra il 1567 e 1570, memore sia dell’apprendistato bresciano nella bottega di Alessandro Bonvicino detto il Moretto, sia dei dettami sanciti dalla Controriforma, appresi durante i suoi viaggi tra 1547-1548 e 1551-1552 nella città di Trento durante il XIX Concilio Ecumenico, che esige (anche in arte) un tono più austero e disciplinato.
Nella stessa sala la giovane poetessa Isotta Brembati, la bambina della casa Redetti, il gentiluomo ventenne, il sacerdote, i coniugi Bernardo e Pace Rivola Spini sono dipinti da Moroni con grande attenzione alla resa naturalistica, al panneggio, alla moda e allo stile. Infatti i personaggi maschili della sala 17 sono abbigliati secondo la moda alla spagnola dell’epoca, con il giuppone, l’orlo bianchissimo arricciato del collo e dei polsini, le braghe a sbuffo e la corta mantellina. Moroni, però, non si ferma a ricreare semplicemente la realtà materiale, ma va oltre, cercando di indagare l’aspetto psicologico dei personaggi con sensibilità introspettiva.
Al Museo Diocesano Adriano Bernareggi ad avere un ruolo fondamentale sono proprio le opere di carattere sacro esposte in tre sale e recentemente restaurate con il contributo di Fondazione Credito Bergamasco. Il polittico di San Bernardo in Roncola, la Resurrezione di Cristo della chiesa di san Martino di Sovere, l’Ultima Cena della chiesa di Santa Maria Assunta e san Giacomo di Romano di Lombardia, il polittico della parrocchiale dei Santi Sette Fratelli Martiri di Ranica, il Battesimo di Cristo, l’Ecce Homo, i due angeli adoranti e il Cristo Morto del Museo Bernareggi.
Di straordinaria bellezza sono le tele di Romano di Lombardia e di Sovere: la prima raffigurante “L’ultima cena”, realizzata tra 1568-1569 per l’altare del Corpus Domini nella cappella della Confraternita del Santissimo Sacramento nella chiesa di Santa Maria Assunta e San Giacomo di Romano di Lombardia, e la seconda “La resurrezione di Cristo” di datazione più complicata. La prima tela mostra un interessante riproposizione dell’episodio biblico del tradimento di Giuda: gli apostoli e Gesù, intenti a celebrare la Pasqua all’interno di un palazzo nobile, apprendono in una calma disarmante la notizia del tradimento dell’Iscariota. In un contrasto di luce e ombra dell’architettura Moroni chiama lo spettatore a partecipare, a testimoniare all’evento, grazie anche alla presenza del gradino dipinto in proscenio e al ritratto d’uomo che offre un’ampolla di vino e una bianca stola. Il quadro evidenzia rimandi al medesimo tema affrescato nella cappella del Santo Sacramento nella Chiesa di San Giovanni Evangelista a Brescia, dipinta da Moretto e Romanino a partire dal 1521. L’altra tela, realizzata per l’altare maggiore della chiesa di San Martino di Sovere per la Scuola dei Disciplini con una datazione incerta, mostra una cromia più calda in primo piano, una distinta precisione anatomica e pertinenti connessioni con “La resurrezione di Cristo” di Tiziano del 1522 per la chiesa dei Santi Nazaro e Celso e di Brescia.
L’unico quadro, che non presenta un tema sacro, è il magnifico ritratto di Gian Giacomo Albani, realizzato nel 1568 circa, prima della sua nomina a Protonotario Apostolico. Il nobile bergamasco, seduto sulla consueta dantesca, è presentato in una rara posa frontale, che conferisce maggiore ufficialità alla rappresentazione. Quest’uomo osserva lo spettatore con piglio severo e sofferente, mentre appoggia la mano destra sul bracciolo della dantesca e con la sinistra tiene un libro. Come negli altri ritratti moroniani spicca una tavolozza imperniata dei toni del nero, del bianco e delle terre, e una volontà di rendere visibile e palpabile il carattere e la psicologia dell’effigiato[1].
A Palazzo Moroni continua la mostra, arricchita dai ritratti di Gian Giacomo Grumelli e della sua consorte Isotta Brembati e di quello della dama anziana in nero. Il conte del Sacro Palazzo è raffigurato mentre tiene la mano destra sulla sua lunga spada, in una posa che ricerca autorità e potere, forse un po’ sminuita dal colore delle vesti di broccato, colore che conferisce al quadro anche il titolo di “Il cavaliere in rosa”. La moglie, invece, seduta su una sedia dantesca, è riccamente abbigliata: indossa gioielli preziosi, oro e perle e una sforzosa coroncina di pietre sul capo. Isotta è raffigurata in una sala d’interno (che tanto ricorda quello dipinto dal Moroni con i coniugi Spini e con i due ritratti Mandruzzo) con un pavimento geometrico, dove due semicolonne svettano su alti piedistalli in un continuo gioco di rimandi cromatici. Gian Giacomo Grumelli, invece, è effigiato in un luogo in rovina, dove si trovano frammenti di cornice, un busto di marmo, il piedistallo di una statua e una nicchia ricoperta da un groviglio di edera. Nel bassorilievo di destra si nota la presenza di un riferimento biblico: infatti viene rappresentato il profeta Elia che ascende al cielo sul carro di fuoco, abbandonando il suo mantello ad Eliseo. Proprio in basso a questa rappresentazione si può leggere la scritta in spagnolo “mas el seguero que ti primero” meglio essere secondo che primo.
Il terzo ritratto presente a Palazzo Moroni nella sala dell’età dell’oro è dedicato a un’anziana dama vestita di un nero disadorno e severo, colta quasi all’improvviso. Seduta sulla dantesca, si volta leggermente a guardare il pittore mentre tiene con la mano sinistra un paio di guanti e con la destra infila l’anulare in un piccolo libro. I suoi occhi mesti e seri e la posa naturale delle mani sono realizzati con straordinaria maestria. Come negli altri ritratti, Moroni riesce con una forza visiva unica a conferire al ritratto un realismo palpitante e concentrato.
Questo percorso espositivo, seppur frazionato in vari luoghi culturali, ha saputo non solo coinvolgere il visitatore, ridandogli l’occasione di visitare i musei della città di Bergamo e di scoprire il Palazzo Moroni, è stato inoltre capace di offrire un’intelligente possibilità di creare relazioni tra musei ed edifici storici, dimostrando di poter realizzare una mostra realmente connessa al territorio.
[1] Ci tengo a precisare che Tiziano Vecellio non fece mai e dico mai buona pubblicità a Moroni con la celebre frase, tramandataci da Carlo Ridolfi nelle “Maraviglie dell’Arte” del 1648:
“soleva dir Titiano a’ Rettori destinati dalla repubblica alla Città di Bergomo, che si dovessero far ritrarre dal Morone, che gli faceva naturali”.
Tiziano con queste parole spiega che lui è l’artista di uomini grandi, le cui gesta e il cui nome riecheggerà nel tempo, e non realizza semplici e “naturali” ritratti alla stregua di Moroni. Ricordate che a quei tempi il ritratto era un sottogenere, la cui importanza era davvero minima.