Warhol. E dopo Warhol

Gamec di Bergamo

Mostra “Andy Warhol. L’arte moltiplicata: Andy Warhol e dopo Warhol”

6 Maggio 2017 – 30 Luglio 2017

 

La GAMeC di Bergamo omaggia il celebre artista di Pittsburg, Andy Warhol, con la mostra “Andy Warhol. L’arte moltiplicata: Andy Warhol e dopo Warhol” . Seppure sia riduttivo definirlo un prolifico esponente della Pop art, non si deve dimenticare che fu un grafico di successo, uno scrittore, un abile maestro di bottega, un acclamato pubblicitario e un originale videomaker, che riuscì a conferire all’arte la sua notorietà di massa “di almeno 15 minuti”.

La mostra, curata da Giacinto di Pierantonio, si interroga sul lavoro dell’artista e dell’eredità culturale lasciata dal suo mito. Viene così ricostruita l’atmosfera fisica e creativa della Factory che Warhol realizzò tra 1962 e 1968 a New York, precisamente a Manhattan. Una Factory, che fu atelier, laboratorio, casa, ufficio, show-room, luogo di lavoro, di incontro e scambio di idee tra ballerini, artisti, musicisti e stars, e che ebbe una breve, ma significativa durata.

Tutte le pareti delle quattro sale espositive si tingono di colore argento e delle sue vibrazioni luminose, dando al visitatore una sensazione abbagliante e al contempo un’energia improvvisa ed essenziale. Le pareti sono foderate con carta argentata, che non viene fatta aderire perfettamente alla superficie ruvida verticale, ma resta spiegazzata, accartocciata, per creare inediti giochi luminosi. Su queste pareti trovano spazio le opere che resero famoso l’artista albino di Pittsburg: le serigrafie dedicate a Marilyn Monroe (1964), a Mao Tze-Tung (1972), a Lenin, a Joseph Beyus (1980), a Mick Jagger (1980 ca), a Cassius Clay, a Muhammad Ali (1977). Serigrafie connotate da colori vivi e smaglianti, da cui traspare il vero intento dell’artista.

Warhol non aveva intenzione di creare ritratti dal vero, ma, lontano dal realismo figurativo e da qualunque altra forma o stile d’arte, volle trasformare queste immagini di artisti, modelle e uomini di spettacolo in icone, ossia, rifacendosi al significato etimologico della parola, volle ritrarne l’immagine priva di qualsiasi elemento emotivo, sociale, ideologico, critico o ideale. Warhol, disinteressato a qualunque altro elemento secondario, realizzò le serigrafie con l’uso della quadricromia, un procedimento tipico della rivista, con il solo scopo di creare una pura e semplice raffigurazione iconica e di esibire quelle immagini di celebrità, di personaggi famosi, che tanto venivano (e vengono tuttora) esaltati e adorati dalla contemporaneità, diventando così immagini di un vero e proprio culto pop odierno.

Nelle quattro sale dell’ex-monastero si possono ammirare, comodamente, grazie alla presenza di sedie sdraio del marchio Other Criteria, ideate da Damien Hirst, alcuni documenti fotografici in bianco e nero, che ritraggono ora Andy Warhol all’interno del suo studio, intento a lavorare, mentre fotografa una modella, ora all’esterno mentre aspetta qualcosa o qualcuno su un marciapiede. In questo scatto fotografico Warhol viene ritratto come un uomo d’altri tempi, forse del passato, che con garbo ed eleganza osserva la strada di una città in bianco e nero, immerso in chissà quali pensieri.

Sono anche esposte entro apposite teche le riviste “Interview[1], magazine fondata da Andy Warhol nel 1969 che tratta di moda, musica, cinema e celebrità; mentre rivestono un’intera parete le copertine discografiche che furono disegnate appositamente per band e musicisti internazionali come l’arcinota banana gialla dei Velvet Underground & Nico o come la cerniera dei jeans del cd “Sticky fingers” dei Rolling Stones.

Con misurata attenzione data alla comunicazione Warhol analizzò nei suoi lavori il concetto di autenticità e di riproducibilità, guardando da un lato al lavoro del connazionale Roy Lichtenstein, che negli anni Sessanta introdusse nell’arte con la A maiuscola la cultura “bassa” e popolare del fumetto; dall’altro, però, non possiamo non citare il famoso saggio di Walter Benjamin “L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica” (1936), in cui l’autore trattò l’ostico rapporto tra l’artista e il suo lavoro, e la questione dell’autenticità di un’opera d’arte, che sembra perdere il suo valore intrinseco in quanto, sempre più facilmente, può essere riprodotta all’infinito grazie alle nuove invenzioni tecniche. Questi sono temi cari anche allo stesso Warhol, che infatti basò gran parte della sua attività analizzando e scandagliando l’essenza stessa dell’arte.

Altro campo in cui l’artista si cimenta è la realizzazione di corto e lungometraggi, uno dei quali è riprodotto in una sala specifica. L’interessante filmato in bianco e nero, “Empire” (1964), ha la straordinaria durata di ben 8 ore, durante le quali Warhol riprese con telecamera fissa l’Empire State Building di New York in visione notturna. Proprio 8 ore che il fruitore è “obbligato”[2] a vedere fin all’ultimo fotogramma per capire, anche con il suo sforzo fisico, le otto ore di un turno di lavoro. Come per le serigrafie, in questo filmato è totalmente assente un qualsiasi intento polemico, critico o sociale.

Nella mostra sono presenti anche opere che fecero la loro comparsa dopo la morte dell’artista, le quali, benché non autorizzate né riconosciute ufficialmente, sono un ulteriore momento per confrontarsi con un’arte che con Warhol e dopo Warhol non è più la stessa, modifica il suo stile, diventa pop, amplia notevolmente il suo pubblico e si appresta ad aprire le porte ad altri artisti, che faranno (e fanno) del loro nome un marchio di fabbrica, un brand.

Warhol con il suo lavoro e la sua creatività riuscì in maniera esemplare ad utilizzare tutte le diverse forme dell’arte, mescolandole e facendole interagire fra loro, creando un originale quanto stimolante intreccio di stili e influenze. L’arte con Andy Warhol diventa popolare e accessibile a tutti, un‘arte che scioglie i suoi legami tradizionali e ne inventa di nuovi, un’arte che esige un cambiamento “basso” e totale, un‘arte che alimenta il culto delle icone e del mito, un’arte che deve rapportarsi con la sua riproducibilità tecnica e massificata.

 

 

[1] La rivista “Interview” fu fondata da Andy Warhol nel 1969 (dopo il fallito attentato) insieme a John Wilcock e Gerard Malanga. Se vuoi retarne anche tu affascinato, di seguito trovi il link. Questo è il sito del magazine http://www.interviewmagazine.com                                                                                                                              

[2] Andy Warhol obbligava i suoi visitatoti a vedere interamente il filmato, con la possibilità di fare delle pause durante la visione.

 

 

 

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